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Bali - quinta puntata

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Quinta parte del capitolo su Bali, in origine compreso nel testo di "Australiando", di Claudio Montalti. - Inviato il 09 novembre 2012 da Claudio Montalti.

Bali - quinta puntata

Sito o fonte Web: www.claudiomontalti.net Besatik, tempio meru, interpretazione architettonica della montagna sacra, composto di sette templi diversi di grandezza decrescente su sette successivi livelli di altezza, teneva fede al nome perché da lontano risaltava come un’immensa piramide scolpita nel fianco smeraldo del monte Agung, ex vulcano e cima più alta dell'isola coi suoi 3200 metri.

Al primo livello, seduto sul pavimento di grandi pietre peras rosse, stranamente tiepide contro la pelle, ho partecipato in compagnia di altri due occidentali e di una decina di colorati balinesi a una specie di battesimo induista. Seguendo l’esempio di chi si trovava vicino, ho accettato tre successive offerte di petali, li ho purificati nelle melodie del gamelong, nelle parole di chi officiava la funzione e nel fumo dell'incenso che bruciava davanti alle mie gambe incrociate nella posizione del loto, e infine le ho strofinate rispettivamente sulle orecchie, sulla bocca e sugli occhi.

Il significato insito nelle mie gesta, come in quelle di tutti, era di permettere ai sensi di sintonizzarsi sulle vibrazioni naturali dei fiori in modo da percepire il mana, l’Energia che Scorre in Ogni Cosa, che l’uomo deve imparare a individuare e interiorizzare per potere apprezzare pienamente la vita. Infine, la sacerdotessa mi ha generosamente spruzzato con l’acqua contenuta in una grossa ciotola di legno e mi ha appiccicato numerosi grani di riso in mezzo alla fronte e su entrambe le tempie, lo speciale lasciapassare per tutti i livelli del tempio.

Vista dal basso, la lunga scalinata pareva ascendere direttamente al cielo e trasmetteva istintivamente il dogma centrale della religione induista. Dava la netta sensazione che, effettivamente, bisogna attraversare con gioia ogni momento d’ogni vita per raggiungere il livello più alto, quello che si trovava ben al di sopra del settimo ed ultimo Tempio sul vertice della montagna sacra. L’induismo insegna che lamentarsi della sorte non serve. Belli o brutti che siano, gli accadimenti della vita non sono casuali, ed anche le avversità devono e possono essere trasformate in valore aggiunto per la crescita dell’anima, e per una più vantaggiosa reincarnazione, perché ogni individuo continuerà a rinascere in questo mondo di dolore finché, sopportando e imparando, non raggiungerà la perfezione e il Nirvana.

La sommità del vulcano, perfettamente libera dalle nuvole nel momento in cui ho superato l’ultimo gradino, posto ad oltre 2100 metri di altitudine, individuava a dovere lo stato ultimo di benessere personale, di equilibrio tra corpo e mente, che interrompeva il ciclo delle morti e rinascite. Il Nirvana è più percepibile del misterioso Paradiso cristiano.

Il Lago Botukan si è invece materializzato sul fondo di un’improvvisa depressione dopo avere superato il valico del monte Augung. Sull’altro lato del baratro, il massiccio Volcano sovrastava sinistro le acque cristalline. Dalla cima, le più recenti colate di lava solidificata dell’unico vulcano ancora in attività di Bali deturpavano con lunghi tentacoli neri il verde acceso della vegetazione equatoriale. L’insieme era al tempo stesso terrificante e affascinante, sereno e inquieto, morte e resurrezione, bontà e cattiveria. In alto, ma in ogni caso più in basso del cratere celato da una spessa coltre di nuvole, pennacchi di fumo salivano ondeggiando verso il cielo, conferendo a tutta l’immagine un tocco brioso.

Avrei amato ogni metro dell’ascesa di Volcano ma, con il tempo limitato da una quantità di luoghi da vedere, e dalle già numerose deviazioni dall’itinerario, mi sono accontentato di sfiorarne le pendici per qualche chilometro. A pochi metri dalla superficie calma del lago, colate di roccia avevano continuamente cambiato la disposizione e la regolarità del manto stradale, in molti punti ormai simile ad una sorta di montagne russe. È stato divertente aggirare in velocità curve cieche attorno a giganteschi massi neri, scendere in picchiate vertiginose fino a sfiorare la superficie dell’acqua e allontanarmene in mezzi avvitamenti che facevano balzare il cuore in gola. Dopo essermi trovato con le ruote per aria successivamente a un dosso più accentuato di altri, con la strada che si allontanava bruscamente alla mia destra, fermo ma ancora rigido per lo spavento a pochi metri da un baluardo nero di parecchie tonnellate, mi sono dato una calmata.

Ho abbandonato il lago e iniziato a risalire un crinale di rara bellezza. Volcano è rimasto costantemente alla mia destra finché non ho sfiorato le nuvole basse e il cratere non ha incominciato di tanto in tanto ad affacciarsi laddove il vento da nord, violento, agitava come veli le coltri di vapore acqueo. Soltanto quando sono arrivato molto vicino, mi sono accorto che le punte annerite cui le nuvole sembravano agganciarsi non erano i picchi più aguzzi del crinale, bensì le decorazioni che ornavano le sommità delle mura e dei pinnacoli più alti del Tempio di Batur.

L’entrata del tempio, un povero portale senza alcun abbellimento, era in piena turbolenza. Una vecchia mi ha bloccato prima che la varcassi. Sono rimasto a bocca aperta davanti alla sua veemenza, tanto più disagevole perché inaspettata. Agitava le dita scarne tanto furiosamente che pareva volesse artigliarmi. Il vento freddo m’investiva costringendomi a sfregare le mani sulle braccia nude e, piuttosto che sfidare le ire della vecchia indiavolata, ho preferito cercare riparo nel chiosco sul lato opposto della strada. L’assenza di vento mi ha avvolto come un soffio di piacevole tepore. Girandomi, ho riso insieme agli altri avventori della mimica della vecchia che continuava a inviarmi parole incomprensibili, probabilmente improperi.

A differenza di Besatik, Batur traboccava di misteri e d’oscuri presagi per gli stessi balinesi.

Continuamente distrutto dalle colate di Volcano, quel tempio era stato ogni volta ricostruito più in alto, spesso sottraendone le pietre sacre alla lava ancora rovente, finché non era stato portato sul sito dove sorge ora, da dove pare costantemente sfidare Volcano a distruggerlo nuovamente. Paragonato alla magnificenza, alla quiete, all’ordine e alla palpabile sacralità del precedente, il tempio di Batur era tutt’altro che bello, ma le mura bruciacchiate, la sua storia di devastazioni e ricostruzioni, la posizione in cima allo sperone di roccia in tutto simile a quella di un castello medievale dall’aura forte e indomita, ne facevano il tempio più rispettato dai balinesi. Questo spiegava a sufficienza il comportamento della vecchia balinese.

Stringendomi nel telo da spiaggia, ho centellinato a piccoli sorsi un gran boccale di tè bollente. Involti di riso, cotti nelle foglie di bambù con verdure e spezie, in un primo momento confusi per mezze patate, hanno rinvigorito un brodo bollente mai tanto desiderato. I vecchi balinesi, molto caratteristici, che già avevano riso con me, aspiravano fumo acre da sigari contorti di discutibile composizione, pensiero confermato dal fatto che non perdevano nessuna occasione per chiamare ogni ragazza o donna che capitava nei paraggi. I modi sono stati complici, i sorrisi lievemente dissoluti, finché un uomo non ha estratto un involto scuro dalla tasca consunta della giacca senza bottoni, stretta in vita da una sottile sciarpa di cotone.

Uno dopo l’altro, i lembi del fazzoletto sono stati sollevati fino a rivelare il contenuto che tutti stavano salutando con sonori schiocchi della lingua. Velocemente si è consumato un rito, uno dei tanti di Bali. Ogni vecchio ha avvolto in una foglia appena raccolta dal betel, un albero molto simile a un tralcio di vite, una mezza noce di areca sbriciolata, un pizzico di calce viva e piccole bacche rosse e dolci che avrebbero coperto il sapore amaro della droga. Così arrotolate le foglie sono sparite dentro a ogni bocca. Le labbra dei balinesi sono diventate rosso sangue, e lo stesso è accaduto ai menti e i denti, mentre masticavano con trasporto sempre maggiore il betel, che oltretutto possiede la particolarità di disinfettare le vie respiratorie.

Gli effetti sono andati ad aggiungersi a quelli già consistenti del fumo e le donne erano ora costrette dai vivaci vecchietti a sedere sulle loro gambe, qualcuna importunata anche pesantemente. Tutte sembravano più contente che infastidite da quelle attenzioni.

Ho rifiutato gentilmente una seconda offerta di betel, preferendovi il calore e il nutrimento del cibo. La fame dapprima violenta come se i primi involti di riso avessero spalancato una voragine nel mio stomaco invece di cominciare a richiuderla, si è arrestata contro la parte più disgustosa del rito.

Già mi sembrava di essere finito dentro ad un film dell'orrore, circondato da mangiatori di sanguinolenta carne cruda, ma ad ogni volta che sputavano per terra gli eccessi di saliva, e un fiotto di sangue pareva uscire dalle loro labbra, la mia condiscendenza si è assottigliata finché non ho più resistito. Mi sono fatto coraggio e sono uscito, abbandonando il riparo. (Pubblicato il 09 novembre 2012) - Letture Totali 79 volte - Torna indietro



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