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Asser il berbero

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Un altro ritratto sahariano di Roberto "Robo Gabr'aoun" - Inviato il 22 agosto 2008 da Robo GabrAoun.

Asser il berbero

Notte fonda sui monti scabri e tormentati a sud est di Tazzarine, sul medio Atlante Marocchino. Il mio Nissan sta procedendo alla cieca lungo un torrente prosciugato che è uno sterminio di sassi grandi come condomini. Più volte sono sceso dall’auto con una leva a far rotolare macigni che impedivano di proseguire. Anto guida. Viaggiamo in prima ridotta su uno dei peggiori fondi che mai abbia incontrato.

Stiamo andando a tutto sud, orientandoci come possiamo con le stelle, visto che la bussola è andata distrutta in un incidente, schiacciata dalla portiera. Stiamo navigando al di fuori di qualsiasi pista e la carta, palesemente errata, ci ha condotti ad imboccare una pista che in teoria avrebbe dovuto essere breve ma che in realtà è eterna, tanto eterna che la notte ci ha sorpreso senza che si sia potuto trovare nemmeno un luogo buono per accamparci.

La situazione peggiora di metro in metro. Camilla, la mia auto, si impenna come un cavallo imbizzarrito ed i fanali illuminano il cielo mentre il retrotreno fa scintille sulle pietre quando si stacca lo scudo di protezione del serbatoio. Non ci penso nemmeno a riattaccarlo: butto tutto nel bagagliaio e proseguiamo. Ancora macigni da spostare, e in certi tratti devo segnare a piedi ad Anto la via da seguire tanto stretti sono i passaggi. Tutti e sei i fari del grande Nissan non fanno che una debole luce che squarcia appena la spessa coltre della notte invernale. Continuiamo ad andare a tutto sud finchè, verso le 23, non decidiamo di fermarci ad aspettare il giorno. Continuando, rischiamo solo di danneggiare la macchina e ritrovarci a piedi in cima al Jebel.

Proseguiamo ancora per un paio di chilometri nella speranza di trovare un posto almeno riparato dal vento gelido dei 1700 metri di altezzza, in pieno inverno, quando in lontananza distinguiamo chiaramente una piccola luce flebile a sud, lungo la nostra direzione. E’ certamente un fuoco.
Dilemma: che facciamo? Le persone intorno a quel fuoco non possono non averci sentito, nel silenzio della notte, e non possono non aver notato le staffilate di luce dei nostri far, se ci fermiamo sicuramente verranno a vedere che succede. Decidiamo quindi di andare a vedere noi: almeno non stiamo preoccupati tutta la notte di veder arrivare all’improvviso qualcuno dal buio. Siamo soli e la prudenza non è mai troppa. Andiamo verso la luce da mezz’ora ma ancora non si distingue nulla. Il fuoco pare non avvicinarsi mai tanto che viene da dubitare di avere le allucinazioni. Intanto, continuo a scendere e a spostare macigni per far passare Camilla. Anto è distrutta. Abbiamo bisogno di riposare. A un dosso, il fuoco scompare alla vista e quando passiamo il colmo dell’altura ci blocchiamo di colpo, spegnendo immediatamente i fari… A qualche centinaio di metri, al riverbero delle fiamme tre automezzi sembrano come dei carrozzoni da circo.

Coloratissimi, strani, inquietanti… Diverse tende a cono, quelle in uso ai nomadi d’Atlante, formano un cerchio disordinato e, ancora più inquietante, una trentina di persone stanno in cerchio intorno ad un grande falò. Sono tutte immobili, ferme come statue di pietra.

Spengo il motore. Dal gruppo non arriva un suono, ma forse sono sottovento. Non possono non averci visto. I miei fari li hanno centrati in pieno per un momento, prima di spegnerli, eppure nessuno si è mosso, nessuno si è voltato. Sono agitato: non capisco che diavolo ci facciano così tante persone in mezzo ai monti, senza uno straccio di gregge intorno. Ok, facciamo così: tu, Anto, resti qui. Io vado a vedere a piedi com’è la situazione. Se mai dovesse accadere qualcosa dai gas e fila via. Mia moglie protesta, ma sono già sceso. Ho la scure in mano.

Sento il Nissan che si muove, sento i sassi scricchiolare sotto le sue ruote dietro di me. Mi sta seguendo a fari spenti. M’incazzo come una bestia: "Non devi seguirmi, diamine! Se succede qualcosa di storto non avresti tempo di scappare!" "Dove vai tu, vado io!" Anto è categorica.  Niente da fare, così proseguiamo…
Sono a meno di 200 metri, eppure nessuno ancora si è mosso. Sembrano tutti immersi in una specie di torpore. Il silenzio, rotto solo dal borbottio di Camilla dietro di me e dallo schiocco dei sassi spostati al suo passaggio, è irreale. A 100 metri ancora niente. Mi avvicino, la scure brandita dietro la spalla per non farla vedere. A 50 metri si gira una testa, incappucciata nel classico cafettano, poi un’altra. Non mi fermo. Ho la gola tanto riarsa che se mi pungono ora non ne uscirà una goccia di sangue. Dietro di me anche Anto viene avanti. Si gira un’altra testa incappucciata, poi molte altre finché una non si alza e mi viene incontro. Anto mi affianca con la macchina, in modo da non avermi davanti e, geniale, spara tutti i fanali del Nissan. Di colpo,  il campo è illuminato a giorno e noi rimaniamo un po' celati nell’ombra. La figura che si avvicina alza un braccio per ripararsi dalla luce accecante ed abbassa il cappuccio. Ha i capelli biondi, ed è inequivocabilmente occidentale. Nello stesso istante inquadro l’intero cerchio di persone e vedo che di occidentali ce ne sono parecchi.. anzi, sono la maggioranza. Anche Anto ha visto e spegne i fari.

Ancora protetto dall’ombra, io poso la scure dentro l’auto e mi avvicino. Ci salutiamo. Sono olandesi, un bel gruppone di ciclisti che stanno facendo un giro fuori pista sulle montagne. I carrozzoni sono dei piccoli camioncini furgonati. Una decina di guide locali si occupano ogni sera di far loro trovare il campo montato e la cena pronta. Tiro un sospiro di sollievo. Ho l’adrenalina a mille e devo assolutamente rilassarmi, per cui chiedo se possiamo fare campo nelle vicinanze. Ricevuta risposta affermativa ci allontaniamo tra le pietre per montare il nostro igloo. Solo che qui ci sono solamente sassi, e che sassi. Noi abbiamo solo stuoie per dormire…

Vaghiamo nel buio con le torce, alla ricerca di un utopistico rettangolino libero dai pietroni quando mi accorgo che accanto a noi c’è un uomo, una delle guide. E’ malconcio, senza denti, vestito di abiti molto logori. Mi porge la mano, ci salutiamo. Batte il palmo della mano su di sé dicendo "Asser…" più volte. Presumo sia il suo nome, così gli comunico il mio allo stesso modo. Parla solo arabo, non una parola di francese, tanto meno di inglese. Guarda Anto che sta tentando, invano, di ripulire un’area di suolo dai macigni. Asser mi indica con aria interrogativa una delle loro tende, ed io gli mostro il sacco della mia piccola igloo. In un lampo, incomincia a spostare i sassi aiutandoci a rendere più o meno utilizzabile un piccolo quadretto di terra tra l’inferno di sassi. Ci aiuta anche a montare l’igloo, poi si allontana senza dire una parola.

Ritorna poco dopo mentre stiamo armeggiando coi fornelli e l’aroma di risotto ai funghi in busta si diffonde nell’aria fresca della notte. Regge una grossa casseruola con del cous cous, che ci offre. Lo assaggio ringraziando. Resta lì accanto nell’ombra mentre ceniamo, rifiutando di unirsi a noi perché ha già cenato. Comprensibile: è praticamente mezzanotte. Dal silenzio del campo, si alza una voce in arabo e Asser sparisce di nuovo, ancora senza alcun commiato. Mentre stiamo riassettando le varie stoviglie e stiamo per stenderci nei sacchi a pelo, il silenzio è improvvisamente rotto da un frastuono di tamburi. Ci affacciamo dalla tenda e uno spettacolo selvaggio si offre a noi, inaspettato. Tutti gli olandesi si sono ritirati nelle grandi tende di lana di capra, le guide hanno alimentato il fuoco fino a farlo divenire un grande falò, alcune di loro  stanno suonando e cantando, le altre danzano come forsennate, cantando anch’esse, accanto alle lingue fiammeggianti del fuoco. La visione è Dantesca.

La luce tremolante proiettano lunghe ombre sulla piana, ondulata dai sassi, ombre che s'arrampicano come fantasmi sui picchi di arenaria che chiudono a oriente la valle; le percussioni raggiungono un ritmo frenetico, un volume pazzesco, e tutto il Jebel rimbomba di questa esplosione di musica tribale, dalle radici antiche che si perdono in una notte come questa, ma vecchia di millenni… Poi la danza si ordina, gli uomini formano un cerchio intorno al falò, e danzano una sequenza di passi preordinata. Una voce solista canta dei versi ed il coro risponde con voce profonda e tonante.

E’ davvero impressionante. Asser è tra gli uomini che danzano: la sua ombra si confonde con l’oscurità del suolo ed egli sembra un’altra persona che non ha nulla a che fare con il timido e malconcio omino di qualche attimo prima. La festa prosegue fino a tarda notte.

All’alba ci alziamo alle prime luci. Gli olandesi ancora dormono e alcune delle guide stanno già girovagando per il campo. Una sottile spirale di fumo sale ancora dal braciere del falò, ormai morente. Guardo il panorama circostante, una corolla di pareti strapiombanti circonda la piccola piana pietrosa, invisibile la notte precedente. La uce dell’alba sta già incendiando le cime più alte, a nord. A qualche decina di metri di distanza dalla rotta da me seguita nella notte c'è una pista abbastanza marcata, che scende a sud nella stessa direzione seguita da noi.

Ci saremmo risparmiati milioni di scossoni, ma nel buio era impossibile individuarla. In alto, verso monte, lo sterminio di pietre da cui la mia auto è giunta fa impressione: sembra impossibile che una macchina sia potuta scendere su un terreno così disastrato, eppure… A sud una nebbia sottile bagna i piedi delle montagne, impedendo la vista della pianura verso Zagora, ancora lontana, e la valle del Draa.

In un attimo, bevuto velocemente un caffè, siamo pronti per partire, questa volta lungo la traccia segnata. Asser si avvicina con altre guide. Alcune chiedono sigarette,altre qualche dono, del denaro. Con un tono secco e duro che mai avrei immaginato potesse uscire dalla gola di quel piccolo uomo, Asser li scaccia malamente. Nessuno obietta e restiamo soli, accanto alla macchina già in moto. Gli lascio qualche maglia, una camicia, ma lui rifiuta.

Continua a battersi sul petto la mano sporca di fuliggine ripetendo "Asser" poi l’appoggia sul mio braccio e, stringendo, dice qualcosa che io credo sia il mio nome. "Robo" dico io. Allora lui ripete tutto pronunciando correttamente anche il mio soprannome, poi sorride, si china a sfiorare la terra, distende un braccio ed indica la piana circostante e sempre sorridendo torna a guardarmi con i suoi occhi colore della notte.  "Asser"   dice ancora e di colpo se ne va, senza più dire verbo.

Ricordami, ricordati di questa notte, di questo luogo, di queste pietre… Ricorda, straniero, che da qualche parte nel mondo c’è un uomo di nome Asser che ha condiviso con te un brevissimo lembo di vita. Solo questo ti chiedo: ricordami.

Partiamo giù per la valle, silenziosi. Il sole incomincia a mitigare il gelo del mattino, e dopo qualche ora all’orizzonte s’intravede la macchia scura dell’oasi di Zagora. Mentre guido il pensiero torna spesso alla notte appena passata, alle danze, ad Asser… e ancora oggi quei momenti sono nitidi, come appena vissuti. Non ho dimenticato, Asser… Non ti ho dimenticato. (Pubblicato il 22 agosto 2008) - Letture Totali 67 volte - Torna indietro



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