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Da Khartoum a Gidel: viaggio tra i Nuba

Racconti e Articoli di Viaggio

Racconto e reportage di viaggio in Sudan, da Khartoum a Gidel, tra problematiche, Nuba e altre etnie, di Giovanni Mereghetti - Inviato il 13 luglio 2006 da Giovanni Mereghetti.

Da Khartoum a Gidel: viaggio tra i Nuba

Sito o fonte Web: www.giovannimereghetti.com Tra le città africane Khartoum è la più africana. Il colpo d’occhio che si ha dall’alto è quello di un grande villaggio fatto di case costruite in terra, il colore dominante è quello della sabbia, insieme al giallo ocra. E’ passato poco più di un anno dall’ultima volta che sono atterrato in questo angolo di mondo, ma tutto, a parte la polizia dell’aeroporto, mi sembra diverso. Anche i gradini che portano nella hall dell’Hotel Gobba sono cambiati, li hanno rivestiti di granito grigio. Le camere, invece, sono come le avevo lasciate: hanno ancora le pareti dipinte di rosa scuro e i copriletto sono sempre gialli, con chiazze sparse come decoro.

Nel precedente viaggio ero andato in Sudan per percorrere le piste del deserto, nell’antica Nubia dei Faraoni Neri, con le sue piramidi e la sua storia millenaria. Oggi invece, il viaggio che dovrò affrontare è ben diverso, non c’è nulla di archeologico da scoprire, nessuna storia lontana da capire, l’obiettivo è molto più vivo e attuale, anche se non meno nobile: conoscere il popolo Nuba e la sua quotidianità.



La zona abitata dai Nuba copre un’area montagnosa molto vasta, posizionata quasi esattamente nel centro geografico del Sudan, il Paese più grande dell’Africa. Raggiungere questa terra non è facile, lo si può fare in due modi: con un volo dal Kenya messo a disposizione dalle Nazioni Unite, una volta alla settimana; oppure, via terra, dalla capitale sudanese con un viaggio molto più interessante, ma anche più impegnativo.

Ho scelto la seconda via, perché m’interessava conoscere in modo profondo il dramma di questo popolo uscito da una guerra durata più di vent’anni. Farsi catapultare direttamente sui Monti Nuba sarebbe stato troppo superficiale, avrei perso il filo cucito dalla storia recente, non avrei visto e capito il cammino che ha generato l’odio verso questi gruppi etnici.

Seguire l’itinerario via terra, da Khartoum, non è stato facile. Ci sono voluti tre mesi per l’ottenimento dei permessi dell’SPLA (Sudan People’s Liberation Army), un mese per il visto sudanese, qualche giorno per il permesso giornalistico di scattare fotografie e qualche ora per il travel permit. Solo quando è stato tutto regolamentato, secondo la legge, sono potuto partire.



Ho affittato una vecchia ma affidabile Toyota 60. L’autista si chiama Jamal: sarà lui, per quasi un mese, il mio unico compagno di viaggio. Jamal è un tipo sveglio, ha già provveduto alle scorte alimentari, nella dispensa ancorata nel baule del fuoristrada c’è di tutto: scatolette di carne, pasta, frutta sciroppata, verdure, acqua... insomma non manca nulla. Un rifornimento veloce alla prima pompa di gasolio e siamo in marcia, direzione: tutto sud.
Dopo aver superato i controlli di polizia in uscita dalla capitale, si percorre la strada asfaltata in direzione di Kosti, che dista solo 350 chilometri. Non perdiamo tempo, solo qualche sosta per il pranzo e per il rifornimento. La voglia di arrivare nel cuore del viaggio è ossessionante e non posso permettermi di fare il turista.

I primi intoppi arrivano a El Obeid, la capitale del Kordofan. La polizia, che da queste parti si fa chiamare Security, ci blocca mentre percorriamo le vie centrali del souk. Jamal non desta nessun sospetto, io, invece, uomo occidentale armato di macchina fotografica, vengo preso in consegna da due giovani in borghese e portato in una casermetta alla periferia della città. Controllano il bagaglio, il passaporto, i permessi, mi chiedono perchè sono venuto da queste parti e se tifo per il Milan o per la Juve. Insomma, come in ogni parte del Continente Nero, la polizia non sa come far passare le giornate e l’occasione di far valere la propria autorità, di sentirsi importanti e curiosare in altri mondi sconosciuti, non può essere lasciata scappare. In Africa le persone sono sempre molto cordiali, l’importante è non vestirli con una divisa militare, altrimenti è finita: si trasformano.



Lasciare El Obeid e dirigersi verso sud significa abbandonare il mondo arabo ed entrare nell’Africa Nera. È un processo naturale: la sabbia del deserto lascia spazio agli arbusti spinosi della savana e la gente assume tratti somatici più decisi. La porta verso il mondo Nuba è vicina.

Bastano solo poche ore di fuoristrada e - anche se l’asfalto finisce per lasciare il posto alla pista, a tratti sconnessa, a tratti ancora ben percorribile in quanto levigata dal passaggio degli automezzi - Kadugli è ormai a portata di mano.

Kadugli è una città tipicamente africana: solo la via principale è asfaltata, il resto delle strade è un bazar polveroso a cielo aperto, dove la vita pullula dall’alba al tramonto, senza tregua. Situata nel Sud Kordofan, questa città è anche la porta per accedere alle Montagne Nuba, qui si sbrigano le pratiche burocratiche e si ottengono i permessi necessari per poter superare i mille controlli che la blindano come in una cassaforte. I numerosi posti di blocco della Security rallentano il viaggio, ma ormai ci siamo, le novantanove montagne narrate dalla leggenda locale sono davanti a me.

Le chiamano montagne, ma anche se hanno delle pareti molto scoscese non possono essere definite tali: sono solo un mosaico di colline che raggiungono al massimo i 1.500 metri s.l.m.

Quando si lascia Kadugli le strade non esistono più anche se sono segnate sulle carte: sono state inghiottite dai bombardamenti della guerra e, quelle rimaste, cancellate dall’ultima stagione delle piogge.

Facciamo fatica a trovare la direzione giusta per Luere, la individuiamo quando è quasi buio e dopo qualche ora di pista siamo costretti a cercare un posto dove montare la tenda e passare la notte.

Jamal, oltre che un bravo autista, è anche un ottimo cuoco e si offre spesso per preparare la cena riuscendo ad inventare sempre qualche piatto nuovo: non è poco considerate le condizioni in cui ci stiamo muovendo.

Nonostante la ricchezza naturale di queste terre, la gente Nuba è stata costretta ad abbandonare quest’area per l’impoverimento dovuto al conflitto; la popolazione, stimata in circa due milioni, per metà, è sfollata a Khartoum e quella restante si è divisa sotto il controllo dell’SPLM (Sudan People’s Liberation Movement) e il Governo Centrale. Le autorità governative sono riuscite per anni ad isolare la regione da un punto di vista umanitario, economico, mediatico ed educativo. Durante il conflitto solo poche e coraggiose organizzazioni umanitarie riuscivano a lavorare sui Monti Nuba, ma da qualche anno le azioni di solidarietà si sono moltiplicate. Nonostante le difficoltà di comunicazione non siano affatto finite, si è aperto uno spiraglio e si sta cercando di far fronte a questo isolamento attraverso rischiosi e costosi voli illegali in partenza dal Kenya. In questa terra, dove mancava anche l’essenziale, ora arrivano medicinali, sale, sapone e soprattutto attrezzi agricoli che hanno permesso, alla gente del posto, di non dipendere dagli aiuti esterni.

Le terre dei Nuba sono tra le più fertili del Sudan, anche un occhio poco attento non può non notare le falde delle montagne, a tratti accuratamente terrazzate; da queste parti, anche nella stagione secca, crescono cipolle, tabacco, pomodori, arachidi e sesamo.

Fra i Nuba si distinguono oltre cinquanta gruppi etnici, ognuno con un nome specifico, una lingua, una cultura e una tradizione diversa. Anche le abitazioni presentano architetture diverse: alcune ricordano l’Africa australe, altre, invece, le regioni del Sahel. Nonostante la varietà di etnie questa gente ama definirsi con un nome solo, unico e orgoglioso: Nuba.

Fino a poco tempo fa i Nuba erano bersaglio del governo di Khartoum. Gli arabi erano decisi ad eliminare la loro identità culturale per farne docili lavoratori al servizio dei ricchi sudanesi. Ma questo popolo di “roccia e miele” non si è mai arreso, ha lottato in una guerra senza fine e ha stretto i denti per non rischiare di scomparire. Ora che la guerra è finita, sui Monti Nuba, è tutto da ricostruire, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dall’inizio, dalle cose primarie, dal quotidiano.

Arrivare a Kauda significa superare decine di posti di controllo presidiati dai militari dell’SPLM.

I giovani in uniforme controllano attentamente i permessi, a volte ne richiedono altri, a volte, semplicemente, mi invitano nelle loro capanne per bere un tè. Sono sempre gentili e sorridenti, sanno che la comunità internazionale sta lavorando per loro, sanno che lo straniero che si muove da queste parti non lo fa solo per turismo. A Luere mi fanno perdere un pomeriggio per i controlli, ma questa, si sa, è la roccaforte dell’SPLM e i militari non scherzano, devono fare il loro lavoro fino in fondo.

Arrivo a Gidel al tramonto, la missione dei Padri Comboniani appare come un miraggio nascosto dagli alberi che la circondano. Il cancello si apre: mi sento quasi a casa.

Ma che cosa è un viaggio per noi viaggiatori moderni? Forse il piacere di una vita, o forse un desiderio cullato fin dall’infanzia, o forse ancora un modo di essere. Preparare lo zaino e l’attrezzatura fotografica, salutare la famiglia e gli amici, soffrire la sete e a volte la fame, dormire in un letto di fortuna. Ma che senso ha tutto questo?

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