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Bali - quarta puntata

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Quarta parte del capitolo su Bali, in origine compreso nel testo di "Australiando", di Claudio Montalti

Bali - quarta puntata

Sito o fonte Web: www.claudiomontalti.net Poco oltre ho deviato verso l'interno dell’isola. La strada si è subito impennata verso le nuvole di calore, appese al cielo come colossali cumuli di panna montata. Mi sono inoltrato nella giungla, rischiarata di tanto in tanto dal candore dai sorrisi dei balinesi, se possibile più splendenti lontano dalla costa. Su una spettacolare terrazza panoramica, dove decine e decine di miglia di verde violento e cobalto di foreste e mare parevano galleggiare nell’aria caliginosa, un semplice tintinnio ha dissolto le mie visioni di snelli cutter e panciute galere dei tempi in cui quelle acque erano solcate dai primi esploratori bianchi. Mi sono voltato. Il suono della piccola campanella di ottone doveva richiamare frotte di bambini perché incarnava le dolci promesse nascoste sotto lucide coppe d’acciaio, in quel momento simili a scintillanti ciminiere rotonde sul carretto dalla forma di transatlantico bianco e azzurro, ma a me ha rammentato un racconto. Un aneddoto che trovavo sempre coinvolgente ogni volta che mia madre si decideva a narrarlo, ha fluttuato e preso vita su quelle note tintinnanti.

È stato facile immaginarla bambina, mentre accorreva con l’ovetto sottratto furtivamente al pollaio di famiglia stretto nelle mani ancora troppo piccole, gli occhi azzurri accesi e le orecchie sempre più piene del suono il cui eco lontano era stato sufficiente a farle venire l’acquolina in bocca.

Mi sono mosso veloce verso l’apparizione del carretto dei gelati. Non stonava per nulla contro lo sfondo verde e ribelle della natura rigogliosa. Per il balinese che lo spingeva, il tempo non si era fermato. Doveva essere bambino ai tempi dei ricordi di mia madre e quindi altrettanto anziano, ma è stato con agilità sorprendente che egli si è fermato davanti a me ed è sceso dalla grande sella di legno. Rapito, stringendo in mano una grande moneta da una rupia, ho osservato il preciso rituale con trasporto quasi religioso. Egli ha sollevato la luccicante campana, ha raschiato piccole cucchiaiate di gelato dalle viscere del carretto e pazientemente, con raffinati movimenti dei polsi, le ha modellate su un piccolo cono di biscotto seguendo i contorni di una sua personale fantasia di forme e di colori. Ha eseguito una danza che doveva avere incantato generazioni e generazioni di bambini balinesi sorridenti e deliziati finché, chinando leggermente la testa, mi ha offerto il gelato con le mani giunte, come se io fossi stato un maragià cui stava donando tutta la raffinatezza e l’esperienza di una vita.

Mi sono fermato sorpreso dove le terrazze coltivate a riso, giustamente famose in tutto il mondo, declinavano per chilometri e chilometri fino al mare. Nel loro insieme, non erano solo meravigliose, ma anche utili perché garantivano tre raccolte annue d’ottimo riso. Chini sulle piantine di riso, o sui piccoli argini di terra che plasmavano e modificavano ogni giorno con rudimentali attrezzi di legno, seguendo sistemi idrici complicatissimi ma efficaci, visti da vicino i contadini non erano più irreali scogli neri, ma uomini nitidi sotto i grandi cappelli conici, miseri nei larghi e laceri indumenti neri, eppure splendidi come certe immagini d’autore in bianco e nero.

Il primo acquazzone della giornata è calato improvviso, nascondendo tutto in un istante.
Fermo sotto una tettoia di bambù che perdeva acqua come un colapasta, senza vedere nulla al di là della strada, ho dilatato le narici, aspirato deliziato gli odori freschi e tonici della pioggia. Non assomigliava per nulla a quella torrenziale di Innsfail, gravida di pesanti odori di terra, e nemmeno a quella salsa, piena di eccitazione e d’avventura, che mi aveva avvolto per ben due volte al largo di Airlie Beach. Quella pioggia aveva i colori e gli odori di un torrente cristallino, le iridescenze verdi e azzurre di una cascata alpina. Due ragazzini balinesi poco vestiti mi hanno raggiunto al riparo.

Dandosi grandi gomitate nelle costole, ridendo sguaiatamente e ripetendo “Hallo!” e “Where are you from?” hanno portato una nota allegra alla mia situazione costringente prima di sparire dentro la cascata d’acqua in tutto simili a spiritelli allegri, saltellando su ciabatte infradito ormai consunte e incurvate dall’uso.
Pochi raggi di sole hanno rischiarato le mie giornate a Bali. In particolare, la pioggia torrenziale ha costantemente frustrato tutte le serate in cui, dopo avere velocemente lavato via dalla pelle il sudore e la stanchezza accumulata sulla moto, eccitatissimo mi recavo alla festa di cui avevo osservato i preparativi per tutto il giorno.

Fin dal primo mattino potevo osservare le processioni di ragazze e donne che andavano in giro a depositare le loro offerte presso ogni piccolo idolo o tempio di pietra, anche il più insignificante e trascurabile. Accendevano un bastoncino d’incenso, purificavano con una veloce nenia un piccolo dono di riso, di fiori o di carne in semplici o elaborate bomboniere realizzate a mano con le foglie più piccole e tenere dei bambù, e lo abbandonavano ai numerosi e sempre affamati cani randagi. Soltanto le donne, che al di fuori della coltivazione del riso fanno ogni altro lavoro, anche il più pesante, si occupavano di questa incombenza.

Nel giorno proprio della ricorrenza, a questi riti si erano aggiunti gli intensi gialli, rossi, aranci dell’abbigliamento e delle coreografie collettive. Qualcuna con il bambino su un fianco, donne di ogni età procedevano in fila indiana sui lati delle strade portando con assoluta naturalezza, in equilibrio sulla testa, composizioni piramidali di fiori, frutta e cibo, talune lavorate in minuti intrecci fino a riprodurre fiori o animali, spesso alte quasi quanto loro. Le processioni diminuivano fuori delle città, ma le lunghe strade di campagna erano comunque colorate dei mariti e dei fidanzati che scortavano famiglie e fidanzate a ogni tempio dell'isola, un pellegrinaggio ripetuto ad ogni festività. Affiancato ai colori indossati dalle donne, il candore delle vesti maschili - pantaloni larghi, giacche senza bottoni col collarino alto, strette in vita da fasce di seta, spessi fazzoletti ripiegati e cinti alla testa in modo da formare un lembo triangolare con il vertice rivolto in alto proprio al centro della fronte – risaltava con l’intensità dei lampi sulle carnagioni e sugli sfondi scuri delle foreste, ancora più cupi sotto l'incombere minaccioso dei temporali.

Senza gli eccessi della più mistica India, e senza il fervore spesso fanatico di ogni altra religione altrettanto sentita, con un atteggiamento forse unico al mondo perché trasforma l’intera isola in una grande festa collettiva priva di isterismi, ho finito per essere fisicamente ed emotivamente coinvolto nell’atmosfera di profonda comunione dei balinesi con il sacro e il bello, non importa se profano. Almeno a prima vista, la spiritualità e la religiosità erano tanto presenti e fisicamente inserite nel quotidiano, tanto coinvolgenti e condivise da tutti con tutti, che hanno finito per costituire anche per me un ponte palpabile tra terra e cielo.

È stato naturale lasciarmi sedurre e trasportare in quel senso del soprannaturale, nel grande fervore collettivo che animava ogni metro di strada. (Pubblicato il 30 marzo 2012) - Letture Totali 77 volte - Torna indietro



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