Camminare all'Argentario
Breve resoconto sul cammino e viaggio nella natura dell'Argentario, di Alberto Angelici - Inviato il 28 novembre 2006 da Aziza.
“E gli uomini vanno a mirare le altezze de’monti e i grossi flutti del mare, le larghe correnti de’ fiumi e la distesa dell’oceano e i giri delle stelle. E abbandonano se’ stessi” (Sant’Agostino – Confessioni)
Dagl’antichi spalti lo sguardo spazia libero. A est e’ un susseguirsi continuo di colline fitte di vegetazione che recenti piogge hanno colorato di verde acceso. Distinguo lentischi, querce da sughero contorte come scheletri in pena, rododendri e pini marittimi; lingue di macchia mediterranea che s’alternano a ordinate piantagioni di ulivi e nel geometrico allineamento delle file giocano ombre tutte uguali, con suggestivi effetti ottici di chiaro-scuro. A ovest scintilla il tirreno e un contorno chiaro segna lo scoglio della Formica, alti sul vento pigolano i gabbiani e un grosso scafo disegna sull’acqua bianche fiamme di schiuma.
Il piccolo gruppo si snoda per le erte stradine di Capalbio, per lungo tempo luogo d’incontro della Sinistra piu’ intellettuale, poco incline, forse, a piu’ frequentate e note localita’ turistiche.
L’abbigliamento e’ quello tipico degli escursionisti, ma senza regole estetiche precise. Zaini, piles, giacche imbottite, sciarpe al vento, cappelli e cuffie di varia foggia e anche un ombrellino multicolore che fa molto Mary Poppins, vero Rosanna? C’e’ chi impugna i bastoncini per aiutarsi sul cammino, chi procede curvo sotto il peso del sacco, lo sguardo a terra e i pollici sotto gli spallacci. Qualcuno chiacchiera, altri osservano pensosi il panorama e la rocca medievale che ci sovrasta. Per quattro giorni si muoveranno a piedi nell’area compresa tra Capalbio, il vicino poggio di Capalbiaccio, Ansedonia, i tomboli sabbiosi della Giannella e della Feniglia che, nei millenni hanno saldato la alla costa toscana alla rocciosa isola dell’ Argentario, ora promontorio, dove si concludera’ il giro. Luoghi densi di storia perche’ ancora forti sono le tracce che Etruschi prima, Romani, Franchi e Longobardi poi, lasciarono sul territorio, seguiti dagli Spagnoli che forse ambirono al lago di Burana, allora aperto, per la ricchezza di pesce o per farne un porto protetto e infatti vi costruirono una torre fortificata. I Medici piantarono pinete e costruirono impianti per la fusione del ferro e tentarono inutilmente la bonifica delle paludi malariche. Poi secoli di immoto latifondo, fin quasi ai giorni nostri.
Sempre camminando e passando per Orbetello si arrivera’ a Porto Santo Stefano: circa un centinaio di chilometri in tutto, attraversando ambienti dei piu’ vari, selvaggi e incontaminati alcuni, come la bella pineta della Duna Feniglia, dove avviene l’incontro con daini e cinghiali, piu’ urbanizzati altri, in un’alternanza piacevole ed armonica. Nei pressi del lago di Burano, si visita un’ oasi del WWF poi, al termine di un entusiasmante percorso in riva al mare, sferzati dalla pioggia e da un vento salino che non da’ tregua, si giunge alla massiccia mole della torre spagnola, dove si sosta per uno spuntino e per riprendere fiato. Il luogo e’ davvero splendido e per un attimo il gruppo se ne sente padrone assoluto, assieme a gabbiani e folaghe, che manovrano sui vicini specchi d’acqua. Il terreno rossiccio dei viottoli che s’inoltrano nella pineta porta innumerevoli tracce di una comunita’ schiva e prevalentemente invisibile. Tuttavia ne percepiamo la presenza, noi che, intrusi, cerchiamo di muoverci in punta di piedi e in silenzio per alterare il meno possibile la pace di quei luoghi.
Le orme dei cinghiali segnano il terreno in lunghe collane e sembra di vederli, maschi, femmine e piccoli, annusare in giro, rovistare nel terreno e sconvolgerlo con le zanne, alla ricerca di tuberi e funghi, di cui sono golosi estimatori.
La spiaggia, un lungo e arcuato nastro stretto tra pini e mare e’ disseminata di detriti portati da onde gonfie di spuma, che prima s’arruffano l’una sull’altra poi s’ingolfano sulla riva dove muoiono nel ruvido frusciare di mille sassolini.
Rami, tavole, interi tronchi sbiancati dall’azione del mare e levigati come statue marmoree giacciono sulla sabbia, a volte semi-sepolti, insieme a un vasto campionario di bottiglie, barattoli, cordami, sandali, scarpe, secchielli e palette colorate che, a differenza di altre volte, lungi dall’ apparirmi l’ennesima dimostrazione dell’invadenza umana nell’ambiente, mi ricordano, chissa’ perche’, certe incomprensibili installazioni dei musei d’arte contemporanea.
La natura ha deciso di mostrare i muscoli; neri nuvoloni gonfi di pioggia corrono per il cielo, ne intersecano altri bianchi come panna montata, con essi si compenetrano in figure sempre nuove, giocano con i raggi del sole che grondano a cascata sull’acqua sconvolta dal vento, ne ricavano sfumature di colore sempre nuove e differenti.
Alcuni girano scalzi. Con aria compiaciuta e assorta compiono ghirigori sulla sabbia lucida del bagnasciuga; novelli Hobbit osservano le impronte mutare in piccole pozze, poi dirigono all’acqua, entrano fino alle caviglie e sorridono. Altri, accucciati a gruppi, consumano un rapido pranzo prima che si riprenda il cammino, destinazione ultima, Orbetello, dove si trascorrera’ la notte. Ottima la cena di pesce alla trattoria I Pescatori, ricavata in un suggestivo, grande edificio che un tempo ospito’ magazzini e laboratori legati alla lavorazione del pescato.
Ultimo giorno, lunedi’. Il piccolo albergo ha aperto i battenti apposta per il Gruppo che, al risveglio, e’ accolto da un’uniforme distesa di nuvole e dal rumore della pioggia che batte sulle tegole. Ultima tappa di questo trekking dell’Argentario, un anello sulle alture del promontorio ex-isola, tra Port’Ercole e Porto Santo Stefano. Mentre si sale per l’ erta stradina, la gelida pioggia addensa e diviene ben presto neve.
Le intemperie rendono piu’ intenso il gusto del viaggiare a piedi, anche se ne disturbano il tranquillo svolgimento. Sono una garanzia di ricordo, anche se al momento possono essere da taluni vissute con impazienza.
Seducente e forte, il contrasto della neve con mandorli e rosmarini fioriti, con una rigogliosa flora totalmente mediterranea, con la fascia blu di un mare che spesso fa’ capolino tra le colline d’arenaria. S’incontrano piccole case semi-finite dall’aria abbandonata e malinconica, il terreno circostante disseminato di materiali da costruzione. Il pvc di un lungo tubo nero pare un serpente proteso a nascondersi sotto una carriola senza ruota, una bacinella zincata anni ’50 parla di bucati con la cenere, poi scatole sfasciate colme di piastrelle, attrezzi rugginosi, desolazione di lavori cominciati e che forse non saranno mai terminati. Sfiliamo accanto in silenzio, una fuggevole sensazione di disagio, involontari guardoni di qualcosa che ha il sapore di un’intimita’ famigliare un po’ squallida, inopportunamente svelata. Qualunque spazio, qualunque oggetto nasconde le sue storie, liete o drammatiche, la cui interpretazione e’ ogni volta differente a seconda del narratore.
Graduale il ritorno ad un ambiente piu’ urbanizzato, a mano a mano che scendono. La strada s’allarga, ricompaiono cippi e catarifrangenti, villette e recinzioni infittiscono, s’ incrocia qualche auto, il camioncino male in arnese di una impresa edile carico di materiali. Uno scoppiettante ape sferraglia a tutto gas e la nuvola azzurrina della marmitta li avvolge, simbolico, puzzolente abbraccio della civilta’ .
Camminare e’ anche questo, un contatto pieno, totale con la realta’. Ogni senso e’ coinvolto e non soltanto lo sguardo sul paesaggio che sfreccia dal finestrino dell’auto o del treno. E’ il corpo intero che si bagna nell’ambiente che attraversa, lo coglie in ogni fibra. I piedi registrano il mutare del suolo, l’asperita’ della roccia, la soffice cedevolezza del terriccio, la morbidezza dell’ erba, mentre le narici captano i profumi sempre diversi del fogliame, dell’ humus, della terra bagnata, riconoscono la fragranza della menta, quello intenso dell’aglio selvatico o il dolce aroma del finocchio. L’udito scopre gli infiniti suoni del silenzio, che tale in realta’ non e’ mai, popolato di fruscii e fremiti, degli scricchiolii del legno vecchio quando il vento lo incontra, del gorgogliare armonico di un rivolo d’acqua. Anche il tatto e il gusto partecipano, quando l’olfatto o la vista suggeriscono un’essenza nota, la dolcezza delle fragoline o di un ramo carico di lamponi maturi.
La marcia e’ un’apertura al mondo, invita all’umilta’ e a cogliere l’essenza di ogni istante, rende consapevoli della propria vulnerabilita’, stimola alla prudenza e alla disponibilita’ verso gli altri, invece che alla conquista e al disprezzo. Raramente il camminatore ha l’arroganza di chi va in auto perche’ sta sempre ad altezza d’ uomo e sente, ad ogni passo, la necessita’ di misurarsi amichevolmente con chi incontra sulla sua strada.
Cosi’ com’era iniziato, anche questo viaggio a piedi volge al termine. Nuove conoscenza si sono compiute, nel territorio cosi’ come nei compagni di strada che il caso ci ha messo accanto e un poco anche in noi stessi, Perche’ un percorso a piedi e’ anche e sempre un percorso di vita interiore. La stessa valutazione di cio’ che nello zaino ci accompagnera’ obbliga a scelte inizialmente difficili. Poi l’ esperienza porta a distinguere tra superfluo, utile e indispensabile, il tempo radica questo discriminare, che diviene forma mentis e parte della nostra natura. Ci sentiamo piu’ leggeri, piu’ snelli, capaci di andare all’ essenziale delle cose piu’ semplici ma piu’ importanti. Scopriamo una nuova sicurezza in noi stessi. Ci accorgiamo di esser cresciuti. (Pubblicato il 28 novembre 2006) -
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