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Makady Bay, Hurgada

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Una giornata come le altre a Hurgada, in Egitto. Mar Rosso, di Lorenzo Mazzoni - Inviato il 21 aprile 2005 da Lorenzo_Mazzoni.

Makady Bay, Hurgada

Il pulmino venne a prendermi davanti all’Hotel.

Era la solita mattina calda. Sudavo. Un cliente tedesco mi chiese se alla farmacia potevo comprargli del colorante per i capelli. Gli sembrava una cosa normale. Me lo domandò come se ci fossimo trovati a Berlino, a Londra, in una qualsiasi città occidentale. Presi i soldi e salii. L’autista mi salutò senza voltarsi, eravamo solo noi due, la radio era a volume sussurrato, il furgone partì. Venti metri di rettilineo fra le palme da dattero, alla casupola un assonnato ragazzino alzò la sbarra e ci trovammo in una strada ricoperta dalla polvere che passava in mezzo a rocce e deserto, un deserto bianco e sporco, dove le lattine di bibite e i sacchetti neri di plastica formavano ammassi disgustosi qua e là. Aprii il finestrino e l’aria secca mi entrò in gola. Andavamo forte, fortissimo. La vista del mare era impedita da colline sassose, aride.

L’autista alzò il volume della radio. Una canzone araba con basi campionate in una dozzinale imitazione di brutta musica europea. Chiesi di abbassare, lui rise. Cercai di accendere una sigaretta, attraverso lo specchietto vidi i suoi occhi che disapprovavano. Rimisi la sigaretta nel pacchetto e guardai fuori.

Eravamo su un rettilineo, le montagne si erano allontanate all’orizzonte, in primo piano baracche di lamiera, un uomo scuro che camminava sul ciglio della strada, un furgone verde scassato occupato da almeno sette persone adulte e tre bambini. Si vedeva il mare blu, lucente, perfetto. Si vedevano i primi alberghi fatiscenti che deturpavano il paesaggio. L’Aladin Hotel, rosa confetto, fra altre due costruzioni abbandonate, lasciate a metà, lasciate ai poveri che ci dormivano. Il Makady Hotel, azzurro e giallo, costruito come un ranch texano, due giapponesi ne stavano uscendo in sella ad una grossa moto.

Guardai davanti, il posto di blocco. Confine fra il distretto di Safaga e quello di Hurghada. Su una torretta un esile soldato imbracciava, con pugno tremante, il suo mitragliatore. Di fianco alla torretta c’era una casa ad un solo piano, di muratura povera; la porta era spalancata e dentro un grassone in jeans era seduto ad una scrivania a guardare la televisione.

I due militari che controllavano il nostro furgoncino mi osservarono ridacchiando, avevano vent’anni, portavano baffetti radi e stupidi elmetti in testa.

Ripartimmo con una sgommata.

Ancora deserto sporco di pubblicità non degradabili, cartelloni stradali in inglese e arabo con nomi di hotel, ristoranti, locali per turisti.

Il mare sfregiato dalle costruzioni dei verdi, gialli, rossi villaggi turistici, una curva, una barca da pesca lasciata in un vicolo sterrato a bloccare il traffico, un dedalo di viuzze sporche, motorini, bambini che chiedono la carità, e ancora uno stradone impolverato percorso da decine di pulmini scarburati, case lasciate lì a marcire, costruite fino al primo piano e poi abbandonate, odore di mafia, scritte politiche, cartelli politici, in fondo alla strada la moschea.

Scesi.

C’era una lunga fila di negozi di souvenir, tappeti, magliette, maschere da sub, narghilè.

Entrai nella città vecchia, nel quartiere di Sakkala. Un anziano rinsecchito, su un carretto trainato da un mulo, urlava qualcosa alla strada. Comprai dolcetti in un market dove la merce era esposta per terra, su panni di tessuto marrone. Dalla macelleria uscivano sciami di mosche. Passavano turisti abbronzati, qualche militare vestito di bianco.

Nell’antro di una casa sventrata, terra di nessuno, dormivano due anziani.

Odore si smog e di carne marinata.

Dei bambini vestiti di stracci colorati vennero scacciati da un venditore di paccottiglia. Il grasso e sudicio venditore ne acchiappò uno, avrà avuto sì e no otto anni e una faccia furba, il venditore lo riempie di calci. Nessuno intervenne. Io mi voltai dall’altra parte e mi incamminai verso il moderno centro commerciale di Dahar. Per terra c’era la carcassa di un grande topo, schiacciato dal traffico e dai piedi dei pedoni.

Trovai la farmacia, la commessa, una donna grassa con un neo bitorzoluto sotto il labbro inferiore, non sembrò affatto sorpresa della mia richiesta. Mi mise sul tavolo una fialetta verde con bianche scritte arabe e mi disse in inglese che erano dieci pounds egiziani.

Pagai, uscii nel sole, qualcuno mi fermò per vendermi non so cosa. Due, tre persone. Mi parlavano in dialetto locale, volevano mercanteggiare. Avevo in mano una confezione di bastoncini di incenso profumato e altri cinque pounds in meno.

Camminai e camminai, ogni tanto incrociai qualche turista che alloggiava nel mio hotel. Mi salutavano cordialmente, io volevo evitarli, non avevo voglia di parole, di banali chiacchiere, mi bastava l’estraniamento visivo e olfattivo che mi sapeva dare quella sudicia, brutta città. La città di Hurghada, un inferno di sporcizia e puzza escrementizia a due metri dal ma re più bello del mondo.

Per una strada a fondo chiuso, dopo essermi perso altre sei o sette volte nella piccola parte vecchia del quartiere di Sakkala senza aver trovato il centro commerciale ma con in tasca incenso profumato e una strana sostanza per decolorarsi i capelli, incontrai una banda di ragazzetti poveri. Distribuii l’incenso alle mani tese. Sembravo il Sai Baba. Ma loro volevano monete, cibo. Dovetti indietreggiare. Un claxon suonava, mi batté forte il cuore, corsi via, inseguito dai bambini che ancora reclamavano doni più consistenti.

L’autista al posto di guida stava ancora suonando il claxon. Quando lo raggiunsi mi informò con voce stizzita che eravamo in ritardo e che all’hotel un sacco di gente lo aspettava coi dollaroni in mano per farsi portare a destra e a manca. Me lo disse con invidia. Come se io non fossi stato costretto a sudare sette camicie per intascare qualche dollarone. Aveva ragione.

Salii dietro.

I bambini, con i loro rametti d’incenso stretto fra i pugni, correvano urlando dietro al furgone e poi il polverone sollevato dalle gomme li cancellò dalla mia vista.

Davanti deserto, deserto sporco. (Pubblicato il 21 aprile 2005) - Letture Totali 138 volte - Torna indietro

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