Gua guas

Racconti e Articoli di Viaggio

Racconto di viaggio tratto da "Cubalibro",di Claudio Montalti, giunto alla ristampa. - Inviato il 12 gennaio 2004 da Claudio Montalti.

Gua guas

Sito o fonte Web: www.claudiomontalti.net Era domenica. Immaginando bene come nei giorni festivi si corra il rischio di inciampare in bibliche migrazioni verso un angolino di sabbia dorata o di prato verde, avevo pensato che mi capitava a proposito di muovermi nel primo pomeriggio. La gua-gua, un autosnodato lungo una trentina di metri, era già piena quando ero arrivato. Avevo pensato anche che non sarei riuscito a salirci sopra prima che si chiudessero le porte, mentre attendevo il mio turno nella coda lunghissima. Invece, spingendo come tutti gli altri per mantenere la mia posizione nella fila, Santiago era caotica anche in quello, ero riuscito a salire.

Quando cominciai a scherzare con un gruppo di giovani ragazze ero, dunque, molto contento. Mi sentivo fortunato di essere a bordo e di non dovere aspettare un’ora per il mezzo successivo. Poi le chiacchiere si smorzarono, lentamente stritolate da una preoccupazione sempre maggiore. La gente continuava a salire sulla gua-gua e gli spazi, già piccoli, diventarono presto inesistenti. Mi trovai incastrato in diagonale tra il finestrino, cui ero saldamente appoggiato con entrambi i palmi delle mani, e il corridoio. Sotto la pressione della folla, i miei piedi si spostarono nella direzione sbagliata e assunsero un angolo innaturale senza darmi la stessa stabilità delle mani. Rimasi letteralmente e pericolosamente sospeso sopra le piccole teste di due bambine in braccio alla madre.

Il mezzo continuò a rimanere fermo per altri venti, lunghissimi, minuti. Sotto il sole feroce delle ore più calde della giornata, alla precarietà della mia posizione si aggiunse il sudore che cominciò a colarmi copioso dal viso. Non si muoveva un filo d'aria. Mi vergognai di sudare tanto, non mi rincuorò affatto che ogni centimetro della mia pelle fosse appiccicato ad altrettanta, sudatissima, pelle. Perfettamente in equilibrio, ormai rassegnato ad essere stato sollevato dallo sforzo di stare in piedi grazie alla pressione della folla che premeva su di me, cominciai a scuotere la testa e a ripetere sconsolato che non potevo credere a quello che vedevano. Non poteva essere vero. All’incredulità si aggiunse l’angoscia.

Sentivo mancarmi l’aria.

I bambini più piccoli iniziarono a strillare a pieni polmoni tutto il loro disappunto, qualcuno svenne ma non scivolò in terra perché sostenuto dalla massa. Nel momento in cui l'autosnodato si mosse, un boato da stadio rimbombò assordante nel poco spazio che rimaneva libero sopra le nostre teste.

Il Caleton Blanco pareva uno di quei lidi antartici straripanti di pinguini. Tra i corpi dei cubani che la affollavano, non riuscii nemmeno ad indovinare se la spiaggia era bianca o dorata. Paventando di dovere passare un'altra brutta mezz'ora in serata, girai immediatamente le spalle a quel lido troppo affollato e tornai a Santiago sullo stesso autosnodato. Soltanto poi venni a conoscenza che il che vero Caleton Blanco si trovava a quattro ulteriori chilometri dal capolinea della gua-gua ed aveva la sabbia bianca come il nome testimoniava.

Fu, questa, l’unica volta in tutto il mio vagare per Cuba in cui la gua-gua mi scioccò. Si può immaginare che ho spesso viaggiato a bordo di autobus o di camion strapieni, ma si trattava di affollamenti più piacevoli che fastidiosi, pieni di contatti, di parole e di sorrisi che mi facevano persino dimenticare la scomodità del trasporto. Nemmeno nel peggiore dei incubi avrei potuto concepito una gua-gua come quella del Caleton Blanco.

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